Mai tempo e coraggio
Note sull’opera di Alessandra Maio

Federica Zabarri e Maria Letizia Paiato

La tendenza di quanti finora si sono avvicinati criticamente all’opera di Alessandra Maio è stata quella di imbrigliarne il lavoro nell’orbita delle sperimentazioni legate all’indagine sulla relazione fra parola e immagine, fra grafia e grafismo; a quelle esperienze che, dalle prime manifestazioni futuriste e dadaiste, sino alle ricerche verbo-visuali delle neoavanguardie (Poesia concreta, Poesia Visiva, Fluxus, Concept Art, Narrative Art), hanno intensificato l’analisi dei processi narrativi e trasformativi dei singoli elementi, aggiungendo o sottraendo al linguaggio il contesto sintattico per esigenze visive, o sostituendo completamente all’immagine la parola.
Che la Maio colga l’eredità di questo ricco patrimonio di ricerche artistiche nella sua produzione è palese: dai disegni, alle fotografie, agli interventi installativi, la scrittura è sempre presente e utilizzata sia come corrispettivo di segno grafico ed espressivo, sia come indizio interpretativo dell’opera prodotta, sotto forma di paradosso o locuzione ironica. Tuttavia, siamo fermamente convinte che la fascinazione per il potenziale visivo della parola scritta, che da segno si fa immagine, sia solo uno degli aspetti presenti nella sua ricerca. Ciò, invece, che ci sembra emergere con maggiore intensità, è l’atto creativo stesso che conduce alla realizzazione dell’opera, aldilà della figurazione finale: un processo quasi performativo, che nasce nel solco della sua esperienza.
Nella serie di lavori inediti, presentati in questa personale alla Galleria BI-BOx Art Space di Biella, depauperata la componente figurativa, ancora fortemente presente nelle precedenti produzioni, l’ “individuo/artista” Alessandra Maio, affiora attraverso il suo stesso lavoro in un atto di forza, di coraggio, di assunzione di responsabilità, ma anche di semplice riflessione sui propri limiti. 
Da qui il titolo dell’esposizione Mai tempo e coraggio, in cui sono espressi i limiti che la Maio confessa a se stessa, ma anche, più in generale, quelli con i quali prima o poi tutti ci troviamo a fare i conti: il tempo come mancanza per poter realizzare i tanti progetti posti in cantiere, spesso si tramuta in un alibi dietro il quale nascondere le nostre fragilità, le nostre insicurezze di fronte al necessario coraggio di cui abbisogna l’agire.
Nascono così i cicli Campiture in nero, rosso e blu, non devo pensarci più, Errata Corrige, non devo avere paura del buio e Nuvola, serie di lavori multipli, sebbene autonomi e diversi fra loro, dove la scrittura diventa chiaramente strumento del pensare e del pensiero e al contempo, e per la prima volta nel suo lavoro, veicolo con cui affrontare l’indagine sul colore, inteso come valore costitutivo e costruttivo dell’opera d’arte.
In tutte le serie, campeggia sempre la medesima frase scritta e riscritta infinite volte, strettissima al punto di diventare illeggibile, maniacalmente perfetta nella sua linearità. 
“…non devo pensarci più, non devo ripetere sempre gli stessi errori, non devo avere paura del buio”, suonano come dei moniti, come degli avvertimenti che l’artista dà a se stessa al fine di esorcizzarne l’assillo. Allo stesso tempo, il ripetere (riscrivere) continuamente lo stesso concetto, diventa quasi un mantra per auto persuadersi che quell’ostacolo potrà essere superato, mettendo al contempo in campo la sua volontà e capacità di trasformare i propri turbamenti e le proprie debolezze in elementi estetici, trasfigurandoli entro il piano materiale dell’opera. Maio passa dall’esternazione di un’ansia attraverso la scrittura, alla manipolazione dell’espressione verbale spingendola a mutarsi, dapprima in forma per poi dissolverla nella dimensione del colore e della superficie. 
In tal senso, la parte testuale di queste opere, diventa un ponte con l’osservatore, un’apertura verso di esso, finalizzata a stabilirne un coinvolgimento empatico e partecipativo: un luogo di turbamenti in cui riconoscersi e in cui fare i conti con la propria identità; dove interrogarsi su cosa si vorrebbe essere, cosa si vorrebbe dimenticare e cosa si vorrebbe correggere. 
«Non possiamo conoscere nulla di esterno a noi scavalcando noi stessi», suggerisce Calvino in un celebre passo del Palomar, «il testo più autobiografico che abbia mai scritto», dichiara lo scrittore in un’intervista su “La Stampa” del 1983, giungendo presto alla consapevolezza, che il senso della conoscenza ha il carattere frammentato della sua esperienza soggettiva.
Parimenti la Maio non scavalca se stessa ma torna su di sé attraverso la pratica dell’esercizio, che diventa uno strumento per liberare la mente, per “staccare la spina”, per designare l’effetto atteso di una “abreazione”, sicché il paziente e meticoloso reiterarsi continuo dello stesso gesto, si traduce in atto catartico, quasi taumaturgico. 
In particolare, in Errata Corrige (in latino, correggi le cose sbagliate) il senso di liberazione temporanea da uno stato emotivo di vessazione è enfatizzato ancora di più dalla presenza dell’errore che, segnalato e puntualmente corretto in rosso, spezza la rigida geometria impartita dalla riga del foglio protocollo. Nell’imposizione dell’esercizio/obiettivo che l’artista si auto impartisce, Non devo ripetere sempre gli stessi errori, l’errore corrisponde allo scarto creativo e diventa l'eccezione inaspettata che chiarisce la regola. Ugualmente appare quale una sorta di apologia della debolezza: un piccolo fallimento che al contrario determina il successo dell’intero compito. Così, l’ironia sottesa al Non devo ripetere sempre gli stessi errori, il paradosso fra la norma e l'irregolarità, diventa lo strumento per mettere in crisi l’universo di regole che governa l’apprendimento in cui  Maio può svolgere entrambi i ruoli di discente e docente, diventando l’unica a poter porre rimedio ai propri errori. 
Il mondo dell’infanzia e del gioco, anch’esso tema caro e ampiamente trattato nell’arte del secolo passato, ritorna nei minuscoli aeroplanini di carta posti sotto campane di vetro, interamente caratterizzati da scritte che recitano “non devo perdere tempo”. Gli spunti di riflessione in queste piccole opere sono numerosi. Abbiamo anzitutto l’oggetto aeroplano di carta, fra i giochi più comuni di intere generazioni. C’è il tema del volo, esemplificazione di una forma di meraviglia, mitica e poetica, che da secoli affascina l’uomo proiettandolo in spazio avventuroso ed emozionale.
Infine, ancora una volta, lo sberleffo nella frase, rivolta a chi si perde nella sua lettura, pone l’accento sul senso dello spreco del tempo. 
tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia, annotava Seneca nel De brevitate vitae, dove nel “non perdere tempo” il filosofo stoicista considerava il tempo la vita stessa, quella che individualmente ciascuno decide o non decide di trascorrere in piena coscienza. Quella che Alessandra Maio idealmente suggerisce di non sprecare nell’attesa, nella tensione verso il futuro, nella ricerca di cose futili che animino l’illusione, riconciliandola al momento presente: la sola dimensione appartenente alla realtà. Ancora una volta, l’artista non scavalca se stessa ma affronta anche i più impercettibili rivolgimenti di un’identità sempre in questione, restituendo e ritrovando tempo a e nell’esercizio artistico.
In mostra, incontriamo anche il nuovo ciclo dedicato alle nuvole: grandi fotografie di cieli, dove l’artista isola il soggetto della nuvola intervenendo su quest’ultima con il consueto strumento della scrittura. In queste opere, più che in tutte le altre, Maio si sforza, strenuamente e con tenacia, di dissolvere l’immagine per mezzo della grafia rincorrendo un’esatta tonalità di blu, nell’ostinato tentativo di far sparire la nuvola nello sfondo. Nonostante le prove continue, la scrittura a penna non è mai in grado di sostituirsi alla perfetta cromia del cielo, giungendo ben presto alla consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere l’obiettivo. Anche in questo caso, si configura in lei lo spettro di un piccolo fallimento che, tuttavia, costante nella sua poetica, è il metro con il quale misurare i limiti del proprio “Io” e del proprio “fare arte”. E nel fallimento, nella continua tensione dell’incertezza del successo, si crea quello spazio poetico ed emozionale che racconta di una soggettività frammentata e che cerca, nell’impossibile, una risoluzione alla sua fragilità; dove l’impossibile diventa metafora dell’accettazione del sé. 
Più propriamente sul piano formale, le diverse Nuvola spianano all’artista la strada verso la ricerca cromatica. Nella combinazione fra il particolare supporto, la stampa stessa, l’intervento a penna e il soggetto, Maio esplora territori più affini alla pittura, dove il colore diventa lo stimolo a una continua sollecitazione immaginativa, una spinta all’ascolto di una dimensione più intimista, verso la soglia di uno spazio sempre teso alla rivelazione del proprio “Io”. Una ricerca, questa sul colore, già accennata in Campiture in nero, rosso e blu, non devo pensarci più, dove la scrittura tenta di sostituirsi al colore uniforme trasformandosi in esso, o nella serie Prove di Colore, in cui porzioni di scrittura vengono abbinate a campiture in acquerello. Si tratta di lavori che introducono nella sua ricerca quel concetto di mimesi cromatica che nel ciclo Nuvola trova un decisivo sviluppo, così come nell’installazione non devo avere paura del buio, in cui la scritta fittissima finisce con il creare una vibrante superfice che si accosta a campiture di colore nero.
Sebbene, e sia innegabile, il bagaglio formativo di Alessandra Maio strizzi l’occhio alle diverse correnti artistiche che hanno attraversato il Novecento, ci pare più pertinente collocarne la poetica nella ramificazione ed eterogeneità di ricerche che, dagli anni Novanta in avanti, sono diventate la cifra distintiva della contemporaneità. Per spiegare la complessità di linguaggi, il groviglio di mezzi espressivi e tecniche, dove, oltre la forma, oltre il segno, oltre il medium e oltre la parola, c’è quasi sempre l’individuo, con tutte le sue fragilità e incertezze, con la sua capacità critica e intellettiva, ci rivolgiamo ancora una volta a Calvino, prendendo a prestito il concetto di “leggerezza” espresso in una delle cinque Lezioni americane pubblicate postume nel 1988. È in questo preziosissimo saggio che l’autore afferma: «la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio». Qualche passo più in là precisa: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica». Per Calvino, quindi, la leggerezza è tutt’altro che evasione e disimpegno, al contrario diventa il principio con il quale mettere in discussione categorie fisse, comprese quelle che schiacciano l’individuo in definizioni preordinate.
A distanza di trent’anni, le parole di Calvino ci sembrano quanto mai attuali e perfettamente consone a riassumere l’opera della giovane Alessandra Maio. Tutto il suo lavoro ci appare come una continua sottrazione di peso ai codici del linguaggio e dell’arte, un incessante togliere che, nello studio del particolare, di un singolo elemento, nell’isolamento di una specifica locuzione, nell’impegno, nell’esercitazione, nella verifica, nel sospingersi al limite di qualcosa, nello studio del colore, nell’atto creativo, cerca la strada per purificare il proprio essere, partendo dai propri limiti e dalle proprie debolezze, liberandosi da ogni timore.
Con Mai tempo e coraggio Alessandra Maio segna definitivamente lo scarto con una possibile definizione ludica del suo lavoro, lasciando affiorare sulla carta, con maggiore chiarezza e immediatezza per lo spettatore, il dettato critico entro il quale si costruisce la sua poetica, e che va a collocarsi nell’ambito del singolare, quale luogo intermedio fra particolare e universale.